Psicoterapia e Psichiatria

Qualcuno alla fine ha detto grazie. E questo è abbastanza.

Qualcuno alla fine ha detto grazie. E questo è abbastanza.

In questo periodo di emergenza tante cose stanno andando a fondo. Coltiviamo solitudini e l’incertezza ci seduce.

Questo momento ha quanto mai a che fare con il nostro mestiere di psicoterapeuti, con la nostra pratica quotidiana. Siamo abituati a stare in bilico, a camminare con chi quotidianamente rischia di andare a fondo, a stare vicino a chi il fondo non riesce a riconoscerlo, perché per qualcuno, neanche il fondo basta mai. Qualcuno il fondo l’ha riconosciuto e nonostante la caduta è riuscito a rialzarsi. Qualcuno siamo riusciti a non farlo precipitare. Qualcuno l’abbiamo tirato fuori. Qualcuno non è più tornato. I pazienti li abbiamo sempre chiamati per nome, se nel buio non si vede, speriamo si possa sentire.  A volte abbiamo telefonato, altre è stato necessario andare a riprenderli a casa.

Il nostro è un lavoro legato al singolare dove anche l’atto diagnostico è l’incarnazione di una storia unica e speciale. La clinica terapeutica riguarda il porre una particolare attenzione verso un’Altra persona, riguarda l’unicità dell’Altro.

Ho abbastanza anni per capire che le teorie e i metodi sono importanti, ma è la particolare relazione che si instaura con il paziente, che fa la differenza. C’è qualcosa che nessun manuale insegna. L’empatia del terapeuta non è quella che chiunque altro possa avere, perché è mediata da un “sapere” teorico e “dall’essere” attraverso l’esperienza; un’essere che si affina giorno dopo giorno tra crinali e abissi, successi e insuccessi. La conoscenza e l’esperienza del rapporto con l’Altro, ci impastano di un sapere che si deposita nella nostra anima, forse la incrosta, come la ruggine sul ferro, un nodo nel legno o la crepa sull’asfalto. Forse quando la teoria si mescola con le imperfezioni della vita impariamo un certo “saperci fare”. Perché dobbiamo “saperci fare” con l’infinita delicatezza dell’essere umano, con le sue vulnerabilità e riconoscerne sempre risorse e possibilità.

Nel nostro esserci partiamo dalla dignità e dal rispetto del dolore, in ogni sua forma. La psicoterapia è curiosità, scambio e vicinanza. È coinvolgimento. A volte sconvolgimento. Sono lacrime versate, grida asciugate, a volte ferite curate, e non parlo solamente di quelle dell’anima.  A volte abbiamo pianto i nostri insuccessi. A volte abbiamo festeggiato i loro diplomi e i loro matrimoni, che qualcuno credeva impossibili.

Qualcuno alla fine ha detto grazie. Comunque sia andata, solo per un momento e per quella persona, qualcosa siamo riusciti a fare. E questo è abbastanza.

Nessun sapere oggettivo ci ha mai permesso di ritornare con qualcuno dal fondo. L’amore, la fede e la passione sì. Non ci siamo mai abituati all’angoscia e al dolore degli altri. Non abbiamo mai rinunciato a credere che ci fosse un’altra possibilità. Nessuna diagnosi è infausta, ma infausta è sempre la rassegnazione. Ma se non ci crediamo noi, nessuno si cura da solo.
La teoria, il metodo, il protocollo, il farmaco, ci hanno aiutato ad aiutare; hanno reso possibili molti dialoghi altrimenti impossibili, ma spesso rischiano di diventare il muro che impedisce il dialogo. Farmaci e diagnosi sono ponti e sono muri, dipende da noi il loro destino. Al centro ci deve essere sempre un incontro emotivamente significante e poi orientato nel percorso terapeutico.

Personalità, senso di realtà, difese dell’Io sono la nostra mappa, i nostri punti di riferimento, ma l’anima dell’Altro ci parla attraverso un sogno, un improvviso rossore, lo spostamento del corpo, un lieve sorriso, un inciampo nel discorso e tutto questo deve diventare parte del dialogo, dell’incontro, deve essere colto e coltivato. A noi spetta una sintesi significativa degli elementi a volte ovvi, a volte nascosti presenti nell’incontro.

“La peste” di Albert Camus o “Cecità” di Josè Saramago ci hanno consegnato salutari sofferenze e anche il Covid-19 lascerà dolore ed insegnamenti.

Intanto facciamo i conti con le nostre idee, ideali e convinzioni, perché presto torneremo a praticare ciò che amiamo e spero che nella nostra memoria resti traccia di qualche riflessione.

Tornare alla normalità non può essere tornare ad essere quelli di prima.
A noi psicoterapeuti il compito di continuare ad accompagnarvi anche nei cammini che qualcuno ritiene impossibili.

DOTT. GIAMPIERO FIORINI

PSICOLOGO, PSICOTERAPEUTA, PSICANALISTA
Esperto in psicodiagnostica clinica e forense