Che cos’è questo vuoto che sempre più, pervade i vissuti delle persone?
Il vuoto è differente dalla mancanza.
La parola emozione deriva dal latino emovere, etimologicamente significa muovere, tirare fuori. Vuoto etimologicamente è riconducibile a vacuo che significa occupato da alcuna materia. Mancanza è riconducibile a non essere o non avere a sufficienza.
In questo senso possiamo pensare alla mancanza come ad uno stato che ci muove nel tentativo di colmare un’insufficienza, una spinta verso qualcosa o qualcuno. La mancanza diventa possibilità per l’esistenza. Un significato di esistenza è stare fuori dalla specie”, cioè pur appartenendo ad una specie con caratteristiche comuni, ognuno di noi ha degli aspetti particolari che lo rendono unico. Dare un senso all’esistenza è aver la possibilità di far emergere la nostra unicità.
Oggi il vuoto sembra diventare un “marchio” stereotipico che annulla la particolarità dell’essere umano, ne appiattisce l’esistenza. È uno stato cognitivo-emotivo non occupato dalla materia, dove la materia in questione sono le parole.
Le cause del senso di vuoto sono legate alla storia personale e sociologiche. Da un lato l’analfabetizzazione emotiva della nostra società non aiuta a trovare le parole per descrivere ciò che ci accade, creando sintomi contemporanei o alla moda, dall’altro va compreso come la nostra vita si sia legata a quel senso di vuoto e perché.
Il termine vuoto, (emptiness, Fogarty, 1973) è un’espressione che sempre più spesso viene riferita dai pazienti e viene utilizzata in relazione a diversi stati emotivi negativi. È frequentemente associato a diversi quadri psicopatologici (fobie, narcisismo, borderline, depressione, anoressie-bulimie, shopping compulsivo, gioco patologico, dipendenze…), ma può descrivere diversi vissuti psichici, in diverse situazioni della nostra vita, che non per forza sono riconducibili alla psicopatologia.
Alcuni esempi clinici dove IL SENSO DI VUOTO si riscontra associato ad altro stato:
- al senso di instabilità: “le mie emozioni cambiano in continuazione”, “mi sento sulle montagne russe emotive”, “i miei pensieri cambiano in continuazione”;
- all’impulsività: “non sento niente e poi faccio cose senza controllarmi”;
- all’irritabilità: “mi sento sempre più irritabile e non so perché”;
- all’insicurezza: “ho sempre paura che possa accadere qualcosa di brutto da un momento all’altro”;
- alla solitudine: “mi sento sola”, “desidero il contatto umano, ma ne ho paura”;
- alla disillusione: “non serve a niente”, “non ne vale più la pena”;
- alla tristezza: “mi viene sempre da piangere e non so perché”, ”non ho fatto niente di buono”, “non sento altro che tristezza”;
- alla perdita di familiarità: “mi sembra di non riconoscere più le situazioni”, “ciò che contava non conta più”;
- alla depersonalizzazione: “mi sento smarrita”, “non mi riconosco più”, “è come se non sapessi più chi sono”;
- al fallimento: “mi sento un fallito”;
- al non sentire: “è come se mancasse qualcosa”, s mi sento vecchio”, “non sento niente”, “non sono niente” “è come se tutto si fosse congelato”;
- alla confusione: “mi sento disorientato”, “non ho più certezze”, “non ho più riferimenti”;
- alla perdita dell’autostima: “non sono importante”, “mi sento inadeguato”, “vorrei qualcuno che si prendesse davvero cura di me per quello che sono, non per quello che faccio”;
- alla perdita di interessi: “non mi interessa più di niente”, “non mi emoziono più”;
- alla vergogna: “ho sempre un senso di vergogna”;
- alla compensazione: “mi atteggio, ma mi sento vuota”.
La cura è legata alla valutazione del singolo caso, non può esistere una “ricetta comune” quando il percorso terapeutico ha come obiettivo trasformare il vuoto in mancanza.
DOTT. GIAMPIERO FIORINI
PSICOLOGO, PSICOTERAPEUTA, PSICOANALISTA
Esperto in psicodiagnostica clinica e forense